Una semplice definizione di cosa sia il dissesto idrogeologico è quella che lo descrive come l'insieme dei processi che provocano la degradazione e il disordine del suolo e del territorio (frane, alluvioni, erosione, ecc.). In Italia sono 7.423 su 7.905 (93.9%) i comuni a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera
Il trend di dissesto in atto è, dolorosamente, in crescita, e i dati a disposizione indicano che il 18,4% (55.609 km2) del territorio nazionale è classificato a pericolosità frane elevata, molto elevata e/o a pericolosità idraulica media (tempo di ritorno tra 100 e 200 anni). Questi dati dipingono un quadro allarmante su quale siano le condizioni di instabilità in cui versa il territorio italiano.
Dagli anni cinquanta ad oggi sono stati spesi, secondo alcune stime, oltre 160 miliardi di euro per riparare i danni di alluvioni e frane e attualmente abbiamo almeno 41.000 chilometri quadrati di aree a pericolosità idraulica e a rischio alluvioni, un territorio vasto quanto l'Emilia-Romagna e l'Umbria messe insieme e tra le Regioni più a rischio c'è peraltro l'Emilia-Romagna la quale è stata oggetto dei recenti ed estremi fenomeni alluvionali che hanno comportato pesantissimi danni alla popolazione e al territorio.
Per risolvere il problema del dissesto idrogeologico, le amministrazioni stimano un costo di almeno 26,5 miliardi di euro. Almeno stando a quanto richiesto dagli Enti Locali registrati sulla piattaforma RENDIS (Repertorio Nazionale degli interventi per la Difesa del Suolo).
In parallelo al dissesto idrogeologico si verifica un costante consumo di suolo e come riporta ISPRA questo avviene con una media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni.
Il cemento ricopre ormai 21.500 km2 di suolo nazionale, dei quali 5.400, un territorio grande quanto la Liguria, riguardano i soli edifici che rappresentano il 25% dell'intero suolo consumato. Nonostante siano state lanciate direttive europee ad hoc come quella sulle "Acque" e le "Alluvioni" non è stata ancora messa in campo una strategia efficace ed organica di gestione del dissesto idrogeologico.
Al complicato quadro idrogeologico e geomorfologico italiano si aggiunge, inoltre, una regolamentazione molto frammentata. L'assetto normativo dovrebbe superare il concetto di limite o confine amministrativo dato che l'acqua scorre secondo logiche naturali e non appunto amministrative.
Infine il quadro si completa con il fatto che l'Italia, come altri Paesi che si trovano nel cosiddetto hotspot Mediterraneo, sta sperimentando con sempre più frequenza fenomeni meteorologici estremi legati ai cambiamenti climatici in corso che determinano emergenze appunto climatiche serie come quelle recenti accadute in Emilia Romagna. In Italia circa 11,5% della popolazione è esposta al rischio alluvioni, in Emilia-Romagna questo dato arriva al 62,5%. Questi dati sono in costante peggioramento anche a causa dei cambiamenti climatici.
I cambiamenti climatici incidono in maniera significativa sul modo in cui le precipitazioni si distribuiscono nello spazio e nel tempo. Ciò, con riferimento alle alluvioni, si traduce in un aumento delle portate e dei volumi di piena. Per di più, precipitazioni maggiormente intense e concentrate comportano un incremento di frequenza e magnitudo delle alluvioni urbane (pluvial flood) e, in specie nei piccoli bacini montani, delle piene rapide e improvvise (flash flood).
L'edizione 2021 del Rapporto sul dissesto idrogeologico in Italia di ISPRA fornisce il quadro di riferimento sulla pericolosità associata a frane e alluvioni, nonché sull'erosione costiera per l'intero territorio nazionale e presenta gli indicatori di rischio relativi a popolazione, famiglie, edifici, aggregati strutturali, imprese e beni culturali.
Il Rapporto è redatto appunto dall'ISPRA nell'ambito dei propri compiti istituzionali di raccolta, elaborazione e diffusione dei dati in materia di difesa del suolo e dissesto idrogeologico riferiti all'intero territorio nazionale (artt. 55 e 60 del D.Lgs. 152/2006 "Norme in materia ambientale").
Si continua a costruire in tutte le regioni perfino su terreni censiti ufficialmente come pericolosi. L'ISPRA pubblica sul sito EcoAtlante le mappe dettagliate di tutte le aree di rischio, con i diversi gradi di pericolosità per frane, alluvioni, terremoti e altro. Ma troppi enti locali ignorano questi dati e autorizzano nuove opere che aggravano il dissesto. Poi, dopo i disastri, si contano le vittime.
E cosa si potrebbe fare subito per contrastare questa situazione di dissesto e pericolosità?
«Basterebbe applicare in tutta Italia una regola semplice: nelle aree a rischio, il consumo di suolo dev'essere zero. In tutti i paesi più civili nessuno può costruire niente su terreni pericolosi». Le questioni ambientali sono di una scala di grandezza tale da non essere più gestibile dal singolo ente locale. Occorre un'autorità centrale, un organo tecnico indipendente, per censire e perimetrare tutte le zone a rischio e imporre vincoli assoluti, inderogabili. I dati forniti da ISPRA sono fondamentali.
Uno degli aspetti poco considerati in occasione di fenomeni alluvionali fa riferimento a un ulteriore effetto delle attività antropiche sull'incremento del rischio associato alle alluvioni. L'inondazione di terreni caratterizzati dalla presenza localizzata o diffusa di sostanze inquinanti comporta il trasporto di tali sostanze e la relativa propagazione in aree e corpi idrici idraulicamente connessi, compromettendone la qualità ambientale.
Per il futuro bisognerà attuare al più presto la strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici già approvata e poi da attuare attraverso la realizzazione urgente delle azioni contenute nel Piano nazionale di adattamento (PNACC). Il piano è uno strumento di indirizzo per la pianificazione e l'attuazione delle azioni appunto di adattamento più efficaci nel territorio italiano in relazione alle criticità riscontrate e previste. Si dice sarà approvato entro l'estate.
Dobbiano usare le risorse che abbiamo a disposizione favorendo la rinaturazione del territorio. Le cosiddette nature-based solutions, infatti, oltre a trattenere carbonio e immagazzinare CO2, migliorano la qualità del suolo e la resilienza delle aree costiere, proteggendole ad esempio dalle inondazioni. "Bisogna cercare di usare la natura in maniera sostenibile per ridurre il rischio degli impatti dei cambiamenti climatici, riducendo quindi anche la perdita di biodiversità e il degrado degli ecosistemi".
Altre misure ad esempio necessarie al recupero dell'area del Po sono quelle che prevedono l'efficientamento delle reti idriche (a oggi, "perdiamo dalla rete il 40% dell'acqua disponibile"), la realizzazione di micro-bacini aziendali - lavorare affinchè le imprese agricole possano provvedere al loro fabbisogno in maniera diretta - e la regolazione efficiente dei grandi laghi e bacini per garantire risorse sempre disponibili.
Si stima che le risorse da investire in adattamento siano 8-10 miliardi fino al 2030 (circa un miliardo all'anno) più un costo operativo e di manutenzione annuale di 600 milioni di euro nello scenario "business as usual", si legge nel rapporto "Cambiamenti climatici, infrastrutture e mobilità", elaborato dalle Commissioni di studio istituite ad aprile 2021 dal Mims e presentato a febbraio 2022.
Inoltre bisogna agire anche a livello urbano. Misure come quelle previste dal progetto Adapt che ha l'obiettivo di rendere le città italiane dell'Alto Tirreno maggiormente capaci di adattarsi alle conseguenze dei cambiamenti climatici, con un particolare focus sulle alluvioni causate da "nubifragi improvvisi e ed estremi".
Il progetto Life Master-Adapt lavora invece per rispondere alle esigenze degli enti locali attraverso l'individuazione, la verifica e la diffusione di strumenti di governance multilivello per integrare l'adattamento ai cambiamenti climatici all'interno delle politiche settoriali. A livello regionale, un esempio di successo, da questo punto di vista, è rappresentato dalla Strategia regionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Sracc) della Sardegna.
Molte altre iniziative in Italia si stanno focalizzando su settori specifici, come quello forestale o agricolo: tra queste, il progetto Life Adapt2Clima - che fornisce strumenti su valutazione del rischio e supporto alle decisioni nel settore agricolo - e Life AForClimate, per una pianificazione forestale innovativa in un contesto ambientale in profondo mutamento.
Un altro caso di interesse è il progetto "Eco-Smart Breakwater", nato sulla costa di Ugento in Puglia, che prevede il riutilizzo della posidonia oceanica. Questa pianta acquatica gioca un ruolo fondamentale nella protezione dei litorali dall'erosione costiera ma, quando si spiaggia in grandi quantità a seguito di intense mareggiate, crea disagi per le amministrazioni e i titolari degli stabilimenti. La posidonia va usata per ricostruire dune naturali, frenando l'erosione costiera.
Anche il progetto "Gaia", nato a Bologna, si pone come obiettivo l'adattamento ai cambiamenti climatici, ma attraverso il rimboschimento da parte delle imprese locali - azione che contribuisce anche a diminuire l'impronta carbonifera delle aziende sul territorio.
Inoltre c'è da ricordare che il Ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili ha fissato al 2023 il termine ultimo per completare il Mose di Venezia, il sistema di quattro colossali dighe formate da 78 paratoie (già azionato più volte, ma ancora incompleto per un funzionamento ordinario) indispensabile per evitare alla laguna e alle città di Venezia e Chioggia allagamenti disastrosi. Il progetto Life Metro Adapt è un altro esempio per aumentare e migliorare le strategie e le misure dell'adattamento al cambiamento climatico nella Città Metropolitana di Milano (CMM).Tutte queste misure, a cominciare dal PNACC stesso, non saranno però efficaci senza un'adeguata velocità di esecuzione."L'adattamento al cambiamento climatico deve essere messo in campo rapidamente con azioni massicce e in modo diffuso sul territorio nazionale sia in aree urbane sia extra urbane". Il 2022 secondo l'Istat è l'anno nel quale i cambiamenti climatici sono risultati al primo posto tra le preoccupazioni degli italiani. Se questo è vero allora che si risponda a questa preoccupazione con un serio ed audace piano di adattamento ai cambiamenti climatici da mettere in campo ieri. nBibliografia- ISPRA Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio - Edizione 2021.- ReNDiS - Repertorio Nazionale degli interventi per la Difesa del Suolo, ISPRA.- Cambiamenti climatici, infrastrutture e mobilità rapporto Mims 2022.
Sarno e Quindici (1998), Valle d’Aosta (2000), Val Canale (2003), Messina (2009), Borca di Cadore (2009), Val di Vara, Cinque Terre e Lunigiana (2011), Alta Val d’Isarco (2012), San Vito di Cadore (2015), Madonna del Monte (2019), Chiesa in Valmalenco (2020), poi naturalmente Senigallia (2014 e 2022), Ischia (2022) e infine la recente Emilia Romagna (2023).
Sono alcune delle migliaia di zone d’Italia che, solo negli ultimi 15 anni, sono state colpite da frane e alluvioni disastrose, quelle «improvvise, rapidissime e a elevata distruttività». Il dissesto idrogeologico è una cronica emergenza nazionale che con il cambiamento climatico diventa sempre più grave. L’Italia è per natura una nazione ad alto rischio di frane (più di un quarto del totale europeo), inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, ma da più di mezzo secolo è anche la più devastata dalla speculazione edilizia. Dal 1971 al 2021 smottamenti e alluvioni hanno provocato 1.630 morti accertati, 48 dispersi, 1.871 feriti, oltre 320 mila senzatetto.
In tutta Italia, oltre 2,4 milioni di persone vivono in case ad alto rischio di inondazioni. Sommando le zone «a media pericolosità idraulica», la popolazione esposta alle alluvioni sale a 6,8 milioni di persone. Le frane più gravi minacciano 565 mila abitazioni, con più di 1 milione e 300 mila residenti, e 84.000 aziende, con 220.000 dipendenti.
Il grafico evidenzia la densità delle costruzioni (percentuale di suolo consumato) nelle aree a rischio di terremoti: meno del 5 per cento del territorio (verde), fino al 9 (giallo e arancione), fino al 15 (rosso), fino al 30 (bordeaux), oltre il 30 per cento (nero).
Nel fantastico gergo degli urbanisti, gli edifici collocati in zone «a pericolosità media» di inondazioni vengono chiamati «case allagabili». Nella mappa di Roma ad esempio si notano una quantità notevole di abitazioni in questa classe di rischio: centinaia di «case allagabili», realizzate anche negli ultimi quindici anni con nuove passate di cemento.